Feeds:
Articoli
Commenti

Queremos la luz

MESSICO
Indios del Chiapas

Gli Indios del Chiapas richiedono da sempre autonomia politica ed amministrativa, istituzione di scuole per l’insegnamento delle lingue e delle Culture Locali, maggiore rispetto per il Diritto alla salute visto che molti bambini muoiono ancora a causa di bronchiti o malaria. Il tasso di mortalità infantile è talmente elevato che ai bambini spesso non viene dato un nome prima del terzo anno di vita. Gli Indios del Chiapas hanno combattuto per i propri diritti dapprima contro i coloni Spagnoli, poi dal 1821, anno di ottenimento dell’Indipendenza, contro il governo centrale. L’ostacolo principale alla loro emancipazione proviene dalla regione nella quale essi sono storicamente insediati,  ovvero quella di Selva Locandona, ricca di giacimenti di petrolio ed Uranio che destano l’interesse, e dunque l’opposizione a qualunque forma di emancipazione dell’area, da parte del Messico e degli Stati Uniti, che hanno dimostrato di voler impedire il cambiamento di status quo anche con la nascita del NAFTA, la zona di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico.
Dal 1983 gli Indios danno vita all’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, con a capo il Subcomandante Marcos: un movimento armato che combatte per i diritti degli Indios, manifesta l’opposizione contro i paesi occidentali, ed il neoliberismo economico. L’esercito si è costituito come movimento armato poiché attraverso le vie legali non sono mai stati raggiunti dei risultati decisivi e non si è mai stati ascoltati. Le operazioni del movimento sono state comunque per lo più di tipo dimostrativo, basate su sequestri brevi e privi di violenze.

Al popolo del Messico
Ai popoli ed ai governi del mondo

Fratelli:
non morirà il fiore della parola. Potrà morire il volto nascosto di chi oggi la nomina, ma la parola che è venuta dal fondo della storia e della terra non potrà più essere strappata dalla superbia del potere.

Noi siamo nati dalla notte. In lei viviamo. Moriremo in lei. Ma la luce sarà il domani per i più, per tutti quelli che oggi piangono la notte, per tutti quelli cui si nega il giorno, per quelli per i quali la morte è un regalo, per quelli ai quali è proibita la vita. Per tutti la luce. Per tutti tutto. Per noi il dolore e l’angoscia, per noi l’allegra ribellione, per noi il futuro negato, per noi la dignità insorta. Per noi niente.
La nostra lotta è per farci ascoltare, ma il malgoverno grida la sua superbia e tappa con i cannoni il suo udito.

La nostra lotta è contro la fame, ma il malgoverno regala piombo e carta allo stomaco dei nostri figli.

La nostra lotta è per un tetto dignitoso, ma il malgoverno distrugge le nostre case e la nostra storia.

La nostra lotta è per il sapere, ma il malgoverno dispensa solo ignoranza e disprezzo.

La nostra lotta è per la terra, ma il malgoverno offre cimiteri.

La nostra lotta è per un lavoro giusto e degno, ma il malgoverno compra e vende corpi e vergogne.

La nostra lotta è per la vita, ma il malgoverno offre morte come futuro.

La nostra lotta è per il rispetto del nostro diritto a governare e governarci, ma il malgoverno impone ai più la legge dei meno.

La nostra lotta è per la libertà di pensare e camminare, ma il malgoverno mette prigioni e tombe.

La nostra lotta è per la giustizia, ma il malgoverno è pieno di criminali ed assassini.

La nostra lotta è per la storia, ma il malgoverno propone l’oblio.

La nostra lotta è per la Patria, ma il malgoverno sogna con bandiera e lingua straniere.

La nostra lotta è per la pace, ma il malgoverno annuncia guerra e distruzione.

Tetto, terra, lavoro, pane, salute, educazione, indipendenza, democrazia, libertà, giustizia e pace. Queste sono state le nostre bandiere nell’alba del 1994. Queste sono state le nostre richieste nella lunga notte di 500 anni. Queste sono oggi, le nostre esigenze.

Il nostro sangue e la nostra parola hanno acceso un piccolo focherello nella montagna ed abbiamo camminiamo verso la casa del potere e del denaro. Fratelli e sorelle di altre razze e di altre lingue, di un altro colore e dello stesso cuore, hanno protetto la nostra luce e da lei hanno acceso pure i loro fuochi.

È venuto il potente a spegnerci col suo forte soffio, ma la nostra luce è cresciuta in altre luci. Sogna il ricco di spegnere la prima luce. È inutile, ci sono già molte luci e tutte sono le prime.

Vuole il superbo spegnere una ribellione che la sua ignoranza ubica all’alba del 1994. Ma la ribellione che oggi ha un viso bruno e una lingua vera, non è nata ora. Prima ha già parlato con altre lingue ed in altre terre. In molte montagne e con molte storie ha camminato la ribellione contro l’ingiustizia. Ha parlato in lingua náhuatl, paipai, kiliwa, cúcapa, cochimi, kumiai, yuma, seri, chontal, chinanteco, pame, chichimeca, otomí, mazahua, matlazinca, ocuilteco, zapoteco, solteco, chatino, papabuco, mixteco, cuicateco, triqui, amuzgo, mazateco, chocho, izcateco, huave, tlapaneco, totonaca, tepehua, popoluca, mixe, zoque, huasteco, lacandón, maya, chol, tzeltal, tzotzil, tojolabal, mame, teco, ixil, aguacateco, motocintleco, chicomucelteco, kanjobal, jacalteco, quiché, cakchiquel, ketchi, pima, tepehuán, tarahumara, mayo, yaqui, cahíta, ópata, cora, huichol, purépecha y kikapú. Ha parlato e parla in castellano. La ribellione non è una parola in una lingua, è dignità, è esseri umani.

Perché lavoriamo ci ammazzano, perché viviamo ci ammazzano. Non c’è posto per noi nel mondo del potere. Perché lottiamo ci ammazzeranno, ma noi faremo un mondo dove ci stiamo tutti e dove tutti viviamo senza morte nella parola. Ci vogliono togliere la terra perché il nostro passo non incontri più la terra. Ci vogliono togliere la storia perché nell’oblio muoia la nostra parola. Non ci vogliono come indios. Morti, ci vogliono.

Per il potente il nostro silenzio è sempre stato il suo desiderio. Tacendo morivamo, senza parola non esistevamo. Lottiamo per parlare contro l’oblio, contro la morte, per la memoria e per la vita. Lottiamo per la paura di morire la morte dell’oblio.

Parlando nel suo cuore indio, la Patria continua degna e con memoria.

La storia siamo noi

“E poi ti dicono tutti sono uguali tutti rubano alla stessa maniera,
Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso in casa quando viene la sera…”

Il popolo Saharawi 

Il sogno del Marocco è sempre stato, dall’ottenimento dell’indipendenza nel 1956, quello della costituzione del Grande Marocco: la riunificazione dei territori appartenenti all’antico e glorioso Impero Almoravide, Marocco, attuale Mauritania, e Sahara Occidentale. In ordine a questo intento il Marocco rifiuterà di riconoscere l’indipendenza della Mauritania prima (1960) e del Sahara Occidentale poi.

 
Quest’ultima zona dal 1884, anno del congresso di Berlino, viene affidata alla colonizzazione prima Francese e poi Spagnola. Gli spagnoli si avvarranno delle ricche riserve di pesca e dei giacimenti di fosfati fino al 1975: la morte di Franco indebolisce sempre piùla Spagna, che, occupata ora a risolvere i problemi sorti sul fronte interno, non è più in grado di controllare le colonie d’oltremare. Gli spagnoli decidono così di abbandonare definitivamente il Sahara Occidentale, che se vorrà potrà rendersi indipendente. Già qualche anno prima della morte del Caudillo, avvertendo la debolezza del regime coloniale, i popoli Saharawi, un insieme di tribù seminomadi che popolano la zona, cominciano a dar vita ai primi movimenti di rivendicazione di indipendenza, primo tra tutti il Fronte Polisario.

Già dal 1972, l’ONU riconoscerà ai popoli Saharawi il diritto di Autodeterminazione.
Nel 1975 tale diritto viene riconfermato anche dal governo Spagnolo.
Ma è un diritto che a tutt’oggi i Saharawi non sono ancora riusciti ad esercitare.

Il 6 Novembre 1975, infatti, annunciato l’abbandono del Sahara Occidentale da parte della Spagna, Hassan II, Re del Marocco, chiama a raccolta tutti gli abitanti delle regioni del sud: dovranno intraprenderela Marcia Verdeper l’occupazione pacifica di quelli che sono dei territori spettanti di diritto al popolo marocchino. 350.000 marocchini occupano le città dei Saharawi, che da allora sono costretti ad abbandonarle. Vengono investiti da un processo di sedenterizzazione forzata e, privati delle loro terre, vivono come profughi in una piccola striscia di territorio a nord della Mauritania, o in campi profughi creati soprattutto in Algeria, il più importante dei quali nella città di Tindouf.

Cominciala Guerradel Sahara, che vede contrapporsi da un lato la resistenza armata del Fronte Polisario, che da vita alla RASD, Repubblica Democratica Araba Saharawi, dall’altro lato l’esercito marocchino, sostenuto militarmente dai paesi occidentali, primi tra tutti Francia e Spagna (legata al governo marocchino per le enclavi di Ceuta e Melilla), e dai paesi della Lega Araba. Nel 1980 viene costruito un famigerato muro lungo2720 km, costituito da oltre200.000 kmdi filo spinato, protetto da 160.000 soldati armati, 240 batterie di artiglieria pesante, migliaia di blindati e i milioni di mine antiuomo vietate dalle Convenzioni internazionali, che hanno provocato negli anni centinaia di morti. Il muro argina il Polisario ed i Saharawi al di fuori della Zona Economica, comprendente le città di Al Aaiun e Es Samara: reale interesse del Marocco (e dei suoi sostenitori) sono infatti i giacimenti di fosfati che lo rendono il terzo produttore mondiale di tale risoras, e le riserve di pesca. Inoltre si ritiene che il territorio sia ricco di giacimenti di gas e petrolio.

La guerra continua con dure perdite anche per l’esercito marocchino, fino a quando l’ONU non decide di intervenire nel 1988, istituendo la MINURSO, Missione per il Referendum nel Sahara Occidentale. Intento delle Nazioni Unite è fare in modo che si tenga un referendum con cui il popolo possa esprimere la propria preferenza: se per l’annessione al Marocco oppure per l’indipendenza.
Ma dal 1988 ad oggi il referendum non è stato mai realizzato. Si dubita inoltre ormai per l’attendibilità che esso potrebbe avere: obiettivo del Marocco attraversola Marcia Verde e la politica di ripopolazione è stata in tutta probabilità volta esattamente alla trasformazione del corpo elettorale. Oggi il Sahara Occidentale è prevalentemente abitato da Marocchini, i Saharawi sono ormai ridotti ad una minoranza.

Nessuno ha mai riconosciuto formalmente l’annessione del Sahara Occidentale al Marocco, che occupa attualmente l’80% del territorio e ritiene gli appartenga integralmente. La Rasdè riconosciuta da 70 paesi. Tra di essi non può essere contemplata l’Unione Europea.
I Saharawi, profughi oltre il muro, continuano ad attendere il referendum accordato ormai più di 20 anni fa.

Radio Tindouf

…il vecchio Omar sta parlando ai bimbi
di città lontane
di un oceano amico e di terre verdi
da chiamare casa
e di cento piante che crescono.

Mio padre un giorno se n’è andato al fronte,

e non è più tornato
il vecchio Omar dice
che è finito in un posto
dove c’è la guerra
e i carri armati che sparano.

Ascolta mamma, questa notte il deserto
mi ha portato un sogno
un grande fiume scendeva giù
e portava via i soldati
e rivedevo la mia città,
rivedevo la mia città

Ascolta mamma, c’è una voce che chiama
al di là del muro
c’è un vecchio uomo che canta e piange
per le sue catene

e mille voci che gridano
e mille voci rispondono…

Modena City Ramblers

Il Popolo degli Ogoni

Negli stessi anni in cui si consuma la tragedia del Biafra un altro popolo si trova a fare i conti con una serie di gravi problemi derivanti dallo sfruttamento delle risorse petrolifere: il popolo degli Ogoni, stanziato anch’esso nelle regioni a sud.

I primi villaggi dell’etnia Ogoni sorgono sul Delta del Niger già 500 anni fa. Il popolo viveva a stretto contatto con la “Madre Terra”, elemento fondamentale all’interno della propria tradizione oltre che principale fonte di sostentamento: gli Ogoni vivevano infatti principalmente di agricoltura e pesca. Questo fino agli anni ’50, quando al posto dei loro villaggi, nella zona cominceranno ad insediarsi le multinazionali del petrolio.

La prima, nel 1958, saràla Shell, che fonderàla Shell PetroleumDevelopment Company of Nigeria (SPDC), responsabile di gran parte dei disagi e delle problematiche che andranno a segnare la storia dell’intero paese. A tutt’oggi principale estrattrice tra le diverse multinazionali operanti in Nigeria (attualmente 31),la Shell, ha privato gli Ogoni delle loro terre, distrutto villaggi e coltivazioni per far posto alle raffinerie. L’estrazione petrolifera effettuata con macchinari obsoleti e non dotati delle adeguate misure per la salvaguardia dell’ambiente, lo hanno inoltre enormemente degradato: esplosioni hanno distrutto foreste; le piogge acide hanno contaminato le ultime colture esistenti; fuoriuscite di greggio hanno inquinato le acque del Niger, rendendo aridi i terreni; ed incidenti hanno provocato la morte di numerosi civili. 

Molte sono state le proteste portate avanti contro i soprusi perpetrati dalla Shell dalla fine degli anni ’50 ad oggi, e altrettante sono state quelle represse nel sangue dall’esercito Nigeriano, proprio dietro richiesta di intervento da parte della stessa Shell. Sarà solo nel 1990 che riuscirà a prendere vita un vero e proprio movimento, il Movimento perla Sopravvivenzadel Popolo degli Ogoni (MOSOP), che si batte per i suoi Diritti, portando avanti attraverso manifestazioni pacifiche, rivendicazioni per l’autodeterminazione del popolo degli Ogoni e per ottenere i risarcimenti ai danni irreversibili provocati dalla Shell Petroleum.  

  Nel 1995, uno dei fondatori del MOSOP nonché presidente dell’associazione, Ken Saro-Wiwa, intellettuale, poeta, attivista politico, dopo aver denunciato il comportamento della Shell e delle altre multinazionali sulla scena internazionale ed aver organizzato marce pacifiche di protesta che hanno visto la partecipazione di oltre 300.000 persone,

viene giustiziato per impiccagione assieme ad altri 8 attivisti. Shell e stato Nigeriano mettono a tacere la voce della protesta, nel tentativo di attenuarne la risonanza mediatica anche e soprattutto sul piano internazionale. La sua uccisione viene condannata dall’opinione pubblica e dai governi dell’Unione Europea: peccato che proprio i paesi Europei fossero ( e siano  tutt’ora) tra i principali azionisti delle multinazionali operanti nel Delta del Niger.

Le accuse intentate dai legali dello scrittore alla Shell, hanno fruttato non una condanna ai danni della multinazionale, che è voluta scendere a patteggiamenti pur di evitarla, ma perlomeno un risarcimento di 15 milioni di dollari a favore dei familiari.

 «Sul nostro territorio le multinazionali agiscono non certo come nel Paesi di appartenenza. Negli altri Paesi infatti gli oleodotti vengono costruiti sottoterra, da noi sono ammucchiati in superficie da quasi cinquant’anni. Gli oleodotti hanno avuto un impatto ambientale terrificante anche perché mancano le manutenzioni necessarie. Spesso ci sono fuoriuscite o esplosioni che provocano la morte dei cittadini dell’area. Questo è l’aspetto grave e immediato, ma il processo di distruzione a volte è più lento. Il greggio, quando fuoriesce dagli oleodotti, si riversa sui terreni fino ad arrivare ai fiumi, seminando inquinamento. I fiumi da cui si attinge l’acqua sono quindi avvelenati, li 7% delle donne Incinte è a rischio. Ci sono state nascite di bambini malformati perchè le madri avevano bevuto l’acqua inquinata. Recentemente un tecnico della Shell ha avuto un moto di coscienza e si è licenziato. Da anni metteva la firma per avvallare le analisi sulle acque destinate agli Ogoni. Finalmente ha detto che non se la sentiva più dl continuare e ha raccontato di aver perso il sonno la notte, perchè si è reso colpevole di aver fatto bere dell’acqua in cui lui non metterebbe nemmeno un dito del piede. Il petrolio viene estratto e raffinato a costi bassissimi eppure le multinazionali non spendono una lira per migliorare la vita delle popolazioni locali ».

Brldget Yorgure, attuale referente del MOSOP

“Ci hanno fatto questo: hanno trasformato i nostri campi di melanzane rosse e di meravigliosi pomodori in una putrida e fetida poltiglia”. E ancora: “Dopo il massacro della nostra gioventù è arrivata la piaga delle piattaforme petrolifere e altra morte per i terreni coltivati e per i santuari dove vivono i pesci e quelle eterne fiamme che trasformano il giorno in notte e avvolgono la terra in finissima fuliggine”. Lo scrittore venne arrestato dal regime nigeriano con un pretesto: lo accusano di aver incitato all’omicidio alcuni avversari del suo Movement for the Survival of the Ogoni People (Mosop). Una balla che il regime non riuscì mai a dimostrare. Non ci furono verifiche né interrogatori, non ci fu una possibilità reale di difesa. E’ un meccanismo solito dei regimi e spesso anche delle democrazie. Quando un intellettuale riesce ad emergere e a parlare a un gran numero di persone il potere trema, le imprese pure: è come se si trovassero di fronte a qualcuno che sta svelando come funzionano le cose. E la paura cresce quando si tratta di uno scrittore, che lo sta facendo in modo pacifico. Le accuse e i consigli sono sempre gli stessi: lo fa per arricchirsi, non seguitelo. E si dice che lo scrittore i suoi nemici personali li elimina: in fondo è uguale al regime che critica. Tutti uguali, insomma.

Roberto Saviano

«Signor Presidente, tutti noi siamo di fronte alla Storia. lo sono un uomo di pace, di idee. Provo sgomento per la vergognosa povertà del mio popolo che vive su una terra molto generosa di risorse; provo rabbia per la devastazione di questa terra; provo fretta dl ottenere che il mio popolo riconquisti il suo diritto alla vita e a una vita decente. Così ho dedicato tutte le mie risorse materiali ed intellettuali a una causa nella quale credo totalmente, sulla quale non posso essere zittito. Non ho dubbi sul fatto che, alla fine, la mia causa vincerà e non importa quanti processi, quante tribolazioni io e coloro che credono con me in questa causa potremo incontrare nel corso del nostro cammino. Né la prigione né la morte potranno impedire la nostra vittoria finale».

Ken Saro-Wiwa poco prima dell’esecuzione

La vera prigione

Non è il tetto che perde
Non sono nemmeno le zanzare che ronzano
Nella umida, misera cella.
Non è il rumore metallico della chiave
Mentre il secondino ti chiude dentro.
Non sono le meschine razioni
Insufficienti per uomo o bestia
Neanche il nulla del giorno
Che sprofonda nel vuoto della notte
Non è
Non è
Non è.
Sono le bugie che ti hanno martellato
Le orecchie per un’intera generazione
E’ il poliziotto che corre all’impazzata in un raptus omicida
Mentre esegue a sangue freddo ordini sanguinari
In cambio di un misero pasto al giorno.
Il magistrato che scrive sul suo libro
La punizione, lei lo sa, è ingiusta
La decrepitezza morale
L’inettitudine mentale
Che concede alla dittatura una falsa legittimazione
La vigliaccheria travestita da obbedienza
In agguato nelle nostre anime denigrate
È la paura di calzoni inumiditi
Non osiamo eliminare la nostra urina
E’ questo
E’ questo
E’ questo
Amico mio, è questo che trasforma il nostro mondo libero
In una cupa prigione

 Ken Saro-Wiwa

NIGERIA

La Nigeria è il paese più popoloso dell’Africa e potenzialmente anche il più ricco assieme al Congo, con grandi riserve di petrolio, carbone e stagno. La popolazione è costituita da più di 200 etnie, le più importanti delle quali sono:

gli Hausa, musulmani, stanziati a nord;
gli Yoruba, cristiani ad ovest;
e gli Igbo, cristiani, a sud.

I maggiori giacimenti di minerali si ritrovano nella regione popolata dagli IBO, a sud, antistante il golfo del Biafra. 

Gli Igbo nella guerra del Biafra

La politica coloniale Inglese, aveva già creato una società segnata dal divario sociale ed economico: le estrazioni minerarie depauperavano i giacimenti delle regioni del sud, e, se non venivano esportate all’estero, erano utilizzate per il solo sviluppo delle regioni a Nord, abitate dal gruppo Hausa, al quale gli inglesi conferirono sempre una posizione privilegiata rispetto agli altri gruppi etnici. Gli Igbo venivano così privati, oltre che delle loro risorse, anche della soddisfazione dei bisogni più essenziali.

Il primo governo indipendente che salirà al potere dopo la decolonizzazione cercherà di mantenere invariato questo tipo di politica, destando però presto le reazioni degli ufficiali Igbo: nel Giugno del1967, apochi mesi dall’indipendenza, proclameranno la secessione e la creazione della Repubblica del Biafra, subito avversata dall’esercito Nigeriano. Inizierà una guerra che vedrà i due eserciti scontrarsi per 3 anni. Nel 1969 il Biafra verrà posto sotto assedio e verrà imposto l’embargo alimentare e di medicinali a danno dei civili Igbo: facile comprendere le conseguenze di questo embargo, considerando che durante la guerra perdettero la vita almeno 3 milioni di persone, la maggior parte delle quali appunto per fame e malattie, più di quante non ne abbiano uccise le bombe.

Deprecabile il comportamento delle potenze estere: Stati Uniti, Inghilterra, Ex Unione Sovietica, paesi musulmani e maggioranza degli Stati Africani si schiereranno tutti dalla parte della Nigeria, continuando a venderle le armi. Unici sostenitori del piccolo Biafra, saranno Francia, Vaticano, una minoranza di stati Africani, e le Organizzazioni Umanitarie, tra cui Medecins Sans Frontieres, che nasce proprio in Biafra.

Le regioni a sud poste sotto assedio accetteranno la sconfitta nel 1970: ancora negli anni successivi gli Igbo dovranno affrontare una grande discriminazione politica e sociale da parte delle altre etnie, e una iniqua distribuzione delle risorse. Poche saranno quelle destinate alla ricostruzione delle regioni del Biafra.

La prima guerra mondiale vede il mondo ridefinirsi attraverso 14 principi di Wilson: tra di essi è già contemplato il diritto di autodeterminazione, che sarà ripreso dalla Carta Atlantica, ed è ancora presente tra i principi fondamentali dell’attuale Carta delle Nazioni Unite:

“E’ necessario sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto,
sul principio dell’eguaglianza dei diritti
e dell’auto-determinazione dei popoli…”

La carta delle Nazioni Unite è sottoscritta da 193 paesi. Eppure il diritto di ogni popolo di determinare da sé la propria identità, attraverso la scelta il proprio sviluppo politico, economico, sociale e culturale viene continuamente negato.

Dal 1919 ad oggi moltissimi popoli sono stati privati delle loro ricchezze economiche, e spesso di ciò che di più prezioso gli apparteneva, la terra: per molti di essi patria e casa, cardine della loro identità e fonte principale del loro sostentamento; per noi occidentali serbatoio di ricchezze e materie prime da estrarre a bassi costi ed utilizzare nelle nostre produzioni manifatturiere. Dal carbone, al petrolio, dalla manodopera a basso costo o a costo zero quando ancora vigeva la schiavitù, alle riserve di gas e addirittura di acqua: la caccia indiscriminata alla risorse ha messo e mette in pericolo ogni giorno la sopravvivenza di intere popolazioni in ogni parte del mondo, nonché il rispetto di diritti fondamentali che appartengono a tutti i popoli ed a tutti gli esseri umani.

L’economia globale si basa sin dalla sua nascita su una triste ed innegabile verità, il sottosviluppo è all’origine del sistema capitalista nonché condizione necessaria perché lo sviluppo del nostro occidente avvenga.

Questo per via di un semplice meccanismo, il sistema Nord  – Sud, o CENTRO – PERIFERIA

– la periferia – costituita dai paesi di vecchia colonizzazione (quelli rientranti nel Terzo Mondo, o Paesi in via di Sviluppo), ricchi di materie prime
– il centro – rappresentato dai paesi occidentali, importatori di materie prime a basso costo dai paesi in via di sviluppo e con esse, produttore di manufatti a basso costo

Se non avessimo dato vita a sistemi coloniali per il controllo delle risorse dei paesi extraeuropei, e non avessimo potuto usufruire per secoli di materie prime a basso costo, non sarebbe stato possibile riuscire a sviluppare la nostra società, le nostre tecnologie, a ritmi così serrati. Il mondo in cui viviamo non sarebbe lo stesso che conosciamo oggi.

Oggi in questo meccanismo globale, agli stati coloniali subentrano come soggetti principali le Multinazionali.
Ma quali sono le conseguenze?
E chi ne paga il conto?

 

 

 

 

Negli ultimi anni si è visto un maggiore impegno da parte delle case di produzione cinematografiche, soprattutto Statunitensi,  nel documentare attraverso film diciamo di “stampo critico”, fatti avvenuti in paesi in via di Sviluppo, nei quali si riscontrano responsabilità immediate anche da parte dei paesi del vecchio continente. Uno di questi è Blood Diamond, ambientato in Sierra Leone, e critica cinematografica a parte il film può essere preso a pretesto per indagare più da vicino le vicende e le realtà che caratterizzano questo paese, che praticamente per tutti gli anni ’90 è stato dilaniato da una folle guerra civile collegata al commercio illegale di diamanti.



La zona dei Monti del Leone prima della colonizzazione portoghese, avvenuta nel 1462, era inclusa nell’Impero del Mali. Era abitata da quattro gruppi etnici, gl Tmene ed i Limba, i Mandingo ed i Malinkè. Furono proprio i portoghesi a dare a questa terra il nome di Sierra Loya. Prima di loro genovesi e normanni vi stabilirono basi commerciali dandole il nome di costa dei grani.

 Nel 1700 il potere passò in mano agli Inglesi, le etnie vennero prima ridotte in schiavitù e commerciate verso i territori del nord America, poi usate dagli stessi ad emblema della lotta alla tratta schiavista intrapresa dalla Corona Inglese nel 1800.

 Gli schiavi venduti in America dopo aver combattuto per l’Inghilterra nella guerra d’Indipendenza acquistarono la libertà ma patirono, e spesso perirono, fra fame povertà e discriminazione.  Gli schiavi rimasti in Sierra Leone pian piano riuscirono invece a riacquistare il loro status di cittadini liberi, e nel 1787 fondarono la nuova capitale: Freetown. Nel 1896 il paese ebbe un’evoluzione politico-sociale che coinvolse solo la zona costiera, lasciata dagli inglesi alla loro amministrazione autonoma.

Nel 1961 la Sierra Leone ottenne la completa indipendenza.

Ma da quel momento in avanti il paese è rimasto in costante stato di guerra civile, con continui e successivi colpi di stato. Le violenze ed i conflitti tribali aumentarono, così come la povertà e l’analfabetismo, che riguardano tutt’ora il 70 % della popolazione.

 

Nel 1985 il governo toccò il fondo. Molti partiti cominciano ad insorgere contro il governo, il CDF, l’AFCR, e il più importante e violento, il RUF (Fronte Unito Rivoluzionario) che crebbe fino a diventare un vero e proprio esercito di ribelli prese ad attaccare gli uomini alla guida della Sierra Leone accusandoli per il loro malgoverno. Ma in realtà i loro attacchi non furono mirati al solo governo ma a tutto il popolo: cominciarono a mettere a soqquadro l’intero paese e la loro stessa gente, bruciarono villaggi di pacifici e innocui agricolotori o pescatori e ne fecero loro schiavi. Fra le loro file vennero impiegate anche le small boy units, i bambini soldato, strappati alle loro vite ed alle loro famiglie e dai 7-8 anni costretti a combattere, ad uccidere, a mozzare arti contro la loro volontà: imbottiti di droghe e fomentati dagli incitamenti dei loro capi vivono la guerra e l’uccisione degli uomini come un grande gioco, assuefacendosi pian piano alla vista dei morti e del sangue fino a non farci più caso.

 

Qui entrano in gioco i diamanti: per combattere si ha bisogno di armi. Ma i Leonesi non hanno possibilità di costruirle da sé, hanno necessità di commerciare con stati esteri per poterle comprare ed unica e d’altra parte enorme risorsa di questa terra sono proprio le pietre preziose. Aumentano gli attentati e gli scontri ed il governo vieta il commercio di diamanti verso altri paesi, ma ovviamente il contrabbando lo rende possibile. I “conflict diamonds”, i diamanti di guerra, arrivano di nascosto in Liberia e da lì sono venduti come diamanti non sporchi di sangue alle grandi major che si occupano del commercio di pietre preziose. Con i soldi degli occidentali gli africani riescono a reperire le armi.

 Per fermare i massacri nel 1999 intervennero le Nazioni Unite: un contingente di 18.000 uomini riuniti nell’UNAMSIL ha assistito il paese nel cessate il fuoco, nel far cessare gli scontri e durante il disarmo, ed ha coadiuvato alla buona riuscita degli accordi di pace fra il governo ed i partiti contrastanti, che prevedevano la formazione di un governo con quote fra cui oggi sono presenti anche esponenti del RUF.

 

Si parla sempre di ridurre o annullare debiti, ma non si pensa mai a quelli insanabili, incompensabili, che abbiamo noi nei confronti di tutti quei popoli che nel corso della storia abbiamo soggiogato, discriminato, sterminato, sottomesso. Così per il colonialismo in Africa, così per i popoli polinesiani, per le popolazioni andine, mesoamericane e Native del Nord America..

Nel viaggio…

“Quindi, pieno d’ardore, mi gettai solo nel tempestoso oceano del mondo, di cui ignoravo i porti e gli scogli. Prima visitai i popoli che non ci sono più; andai a sedermi sulle rovine di Roma e della Grecia: paesi di robusta e ingegnosa memoria, dove i palazzi giacciono sepolti nella polvere, e i mausolei dei re nascosti sotto i rovi. Forza della natura, e debolezza umana: spesso un filo d’erba fora il marmo più duro di quelle tombe, che tutti quei morti così potenti non potranno mai sollevare! A volte appariva un’alta colonna, sola nel deserto, come un grande pensiero che, di quando in quando, si erge in un’anima che il tempo e l’infelicità hanno devastato. Meditai su quei monumenti in tutte le circostanze e in tutte le ore della giornata. Lo stesso sole che aveva visto gettare le fondamenta di quelle città, tramontava maestosamente davanti ai miei occhi sulle loro rovine; e la luna che si alzava nella purezza del cielo, tra due urne funerarie spezzate a metà, mi mostrava le pallide tombe. Spesso ai raggi di quell’astro che alimenta le fantasticherie, ho creduto di vedere il Genio dei ricordi seduto accanto a me in raccoglimento. Ma mi stancai di frugare nelle tombe, dove troppo spesso non smuovevo che una polvere criminale. Volli vedere se le razze viventi mi avrebbero offerto più virtù o meno sventure di quelle scomparse. Un giorno, mentre passeggiavo in una grande città, transitando dietro un palazzo, in uncortile appartato e deserto, scorsi una statua che indicava con il dito il luogo di un famoso sacrificio. Fui colpito dal silenzio di quei luoghi; solo il vento gemeva attorno a quel tragico marmo. Alcuni operai stavano accovacciati con indifferenza ai piedi della statua, dove tagliavano pietre fischiettando. Domandai loro cosa rappresentasse quel monumento: gli uni me lo dissero a stento, gli altri ignoravano la catastrofe a cui alludeva. Nulla mi ha più dato la giusta misura dei fatti della vita, e del poco che noi siamo. Cosa sono diventati quei personaggi che fecero tanto rumore? Il tempo ha fatto un passo, e la faccia della terra si è rinnovata. Nei miei viaggi cercai soprattutto gli artisti e quegli uomini divini che sulla lira cantano gli dèi e la felicità dei popoli che onorano le leggi, la religione e le tombe. Quei cantori appartengono a una razza divina, essi possiedono il solo talento incontestabile che il cielo abbia donato alla terra. La loro vita è insieme semplice e sublime; essi celebrano gli dèi con l’oro della bocca, ma sono i più semplici degli uomini; parlano come gli immortali o i bambini; spiegano le leggi dell’universo, ma non possono comprendere le più innocenti faccende della vita; hanno idee meravigliose sulla morte, ma muoiono senza accorgersene, come i neonati. Sui monti della Caledonia, l’ultimo Bardo che sia stato udito in quei deserti mi cantò i poemi con cui un tempo un eroe consolava la sua vecchiaia. Eravamo seduti su quattro pietre corrose dal muschio; ai nostri piedi scorreva un torrente; poco distante un capriolo passava tra le rovine di una torre, e il vento del mare fischiava sulla brughiera di Cona. Ora, la religione cristiana, anche lei figlia delle alte montagne, ha messo croci sui monumenti degli eroi di Morven, e toccato l’arpa di Davide, sulle rive dello stesso torrente dove Ossian fece gemere la sua. Pacifica, quanto le divinità di Selma erano guerriere, essa custodisce greggi dove Fingal dava battaglia, e ha diffuso angeli di pace là dove le nuvole erano abitate da fantasmi omicidi. L’Italia antica e ridente mi offrì la folla dei suoi capolavori. Con quale orrore santo e poetico non vagabondai in quei vasti edifici che le arti hanno consacrato alla religione! Che labirinto di colonne! Che succedersi d’archi e di volte! Che bei suoni si odono attorno alle cattedrali, simili al rumore dei flutti nell’Oceano, al mormorio dei venti nelle foreste, o alla voce di Dio nel suo tempio! L’architetto costruisce, per così dire, le idee del poeta, per farle toccare dai sensi. Ma cosa avevo imparato fino ad allora con tanta fatica? Nulla di certo tra gli antichi, nulla di bello tra i moderni. Passato e presente sono statue incomplete: l’una è stata ritirata tutta mutilata dalla rovina dei tempi; l’altra non ha ancora ricevuto la sua perfezione dall’avvenire. Un giorno ero salito in cima all’Etna, un vulcano che brucia in mezzo a un’isola. Vidi il sole levarsi sotto di me nell’immensità dell’orizzonte, la Sicilia stretta in un punto ai miei piedi, e il mare disteso nella lontananza degli spazi. Da quella vista verticale sul paesaggio, i fiumi non mi sembravano che segni geografici tracciati su una carta; ma, mentre da una parte il mio occhio scorgeva quelle cose, dall’altra s’immergeva nel cratere dell’Etna, le cui viscere infuocate mi si rivelavano tra neri sbuffi di vapore. Un giovane pieno di passioni, seduto sull’orlo di un vulcano, che piange sui mortali di cui scorge a fatica le dimore ai suoi piedi, certamente per voi vecchi non è che un oggetto degno di pietà; ma, qualsiasi cosa possiate pensare di René, questo quadro vi offre l’immagine del suo carattere e della sua esistenza: così, per tutta la vita, ho avuto davanti agli occhi l’impercettibile immensità della creazione, e un abisso spalancato al mio fianco». «Selvaggi beati! Oh! E io che non posso godere della pace che sempre vi accompagna! Mentre percorrevo con così poco frutto tanti paesi, voi, tranquillamente seduti sotto le vostre querce, lasciavate scorrere i giorni senza contarli. Il vostro pensiero coincideva con i vostri bisogni e giungevate, più di me, alla saggezza, come il bambino, che vi arriva giocando e dormendo. Se qualche volta la vostra anima veniva raggiunta dalla malinconia generata da un eccesso di felicità, in poco tempo uscivate da quella tristezza passeggera e il vostro sguardo, levato al cielo, cercava con dolcezza l’indefinibile ignoto che s’impietosisce del povero selvaggio». Allora il vecchio selvaggio disse: «Mio giovane amico, i moti di un cuore come il tuo non possono essere equilibrati; cerca solo di moderare un po’ quel carattere che ti ha già fatto tanto male. Se tu soffri più degli altri per le cose della vita, non devi stupirtene; un’anima grande deve contenere più dolore di una piccola».

F.R. de Chateaubriand

I Maori ed i Poi Toa

 
Sono un gioco o un allenamento di origine Maori molto bello, coinvolgente e divertente di cui mi son molto interessata di recente. I Poi vengono spesso confusi con altri strumenti e chiamati con diversi nomi, tra cui Kiwido, Bolas, Nastri, Palline… nomi tutti inesatti. I loro nomi ufficiali sono per l’appunto Poi, Poi Toa, o infine Kii Toa, quest’ultimo un nome, però, usato molto raramente.

Il Poi è uno strumento oggi usato in tutto il mondo le cui origini, al di là di quel che comunemente si pensa, si perdono nella notte dei tempi. Le origini antichissime di questo strumento sono tramandate in modo diverso dalle varie tribù Maori, attraverso miti e leggende intrise di significati tipiche della tradizione orale dei popoli Neozelandesi. Ciascuna leggenda pone comunque le fondamenta della nascita dei Poi sulla sequenza storica che partì dalle origini del mondo, del buio e della luce…

All’inizio vi era il Principio:
Io Matua , il Principio maschile, era incarnato in Ranginui, il Dio del Cielo, mentre Waeha Rokoriko, il Principio femminile era rappresentato da Papatuanuku, la Dea Terra.
Il cielo e la terra si amavano, non avrebbero mai voluto separarsi, ma i loro figli, il vento, l’albero, il grande mare, il tuono, erano infelici: il loro mondo, Ko Te Po (la Lunga Notte), così com’era a quel tempo, non dava spazio a tutti loro, che continuavano a vivere nell’oscurità senza possibilità di respirare, estendersi o vivere.
Fu così che il Dio della Foresta e delle piante, Tane Mahuta, decise di intervenire, frapponendosi tra il Cielo e la Terra, che si scissero.
Ebbe così origine Ko Te Ao (il mondo della Luce), e la terra si liberò dalla sua oscurità. Uno dei fratelli, il Vulcano, Raumoko, patì molto più degli altri fratelli la separazione dei suoi genitori: la loro sofferenza, la loro angustia e le loro lacrime lo facevano tremare ed urlare di rabbia. Egli voleva ledere gli altri suoi fratelli che avevano provocato tanto patimento ai suoi genitori. Solo le cure e le attenzioni della sua cara madre, Papatuanuku, che lo avvolgeva nelle sue calde braccia, cullandolo e cantando per lui, riuscirono a tranquillizzare il giovane ed ardimentoso Raumoko. Ranginui e Papatuanuku accettarono infine la loro separazione, gli altri fratelli si diedero da fare, lavorarono per lenire le loro ferite e rendere i loro genitori sempre più belli… ma talvolta la rabbia del figlio minore, Raumoko, continua a fuggire alle braccia della Madre, la quale di volta in volta provvede a lenire il suo dolore e la sua sofferenza con il suo dolce canto.
Tane Mahuta e Pakoti, il primo il Dio della Foresta, il secondo il Dio del Lino (Harakeke), diedero vita a tutti i materiali naturali che sarebbero stati necessari per la costruzione dei Poi Toa…

… i materiali utilizzati per la costruzione dei Poi erano infatti in principio tutti di origine naturale, fondamentali erano in particolare il Raupo, una particolare pianta palustre, il Ti, pianta di cavolo o palma, il granturco in tutte le sue parti, le pelliccie o le piume di alcuni animali, ed il lino (Harakeke).

I Poi erano al tempo stesso un gioco ed un esercizio fisico, uno strumento tradizionale Maori, dalla struttura piuttosto semplice perché costituita da una sola pallina di raupo (una pianta di palude) unita alla sua estremità ad una corda di lino di varia lunghezza. I Poi nei secoli hanno ricoperto diversi usi: originariamente utilizzati per la caccia, divennero successivamente armi da combattimento ed infine un congegno per esibirsi in bellissime e suggestive danze tradizionali.
Gli antichi Maori tutti, uomini, donne e bambini, sin dai primi anni di vita e già molti anni prima dell’arrivo dei Coloni Europei, utilizzavano (ed utilizzano ancora oggi) questo strumento per migliorare i riflessi ed aumentare la coordinazione, l’agilità, e la flessibilità degli arti.

I Poi Toa attuali traggono origine dai “Kii”, dei congegni che permettevano il trasporto delle grandi uova di Moa, dei grandi uccelli estinti inetti al volo, in principio fondamentali per la sussistenza delle tribù Maori. I Kii erano dei sacchetti di lino che contenevano un solo grande uovo di Moa: uniti ad una corda legata alle spalle o al collo ne agevolavano il trasporto fino ai villaggi.

lo stesso metodo di costruzione dei Poi Toa quali strumenti di caccia, venne utilizzato anche per la costruzione di congegni che sarebbero stati utili per l’addestramento dei guerrieri e l’incremento della loro forza fisica.
Rendendo le corde più lunghe di quelle dei Poi originari, e ponendo una pietra nel sacchetto al posto dell’uovo di Moa, essi divennero armi da utilizzare eventualmente anche in battaglia. Per i Maori l’arte guerresca era fondamentale, molto conosciute sono le Haka ed i canti di guerra nonché le pitture tipiche dei periodi di battaglia atte ad intimorire i nemici.

La stessa tecnica ispirò la costruzione di un ulteriore congegno, una sorta di lancia-palle di fuoco, utilizzato nella difesa dei villaggi e dei “Pa”, le antiche fortificazioni Maori.
Anche i bambini e le donne continuarono ad utilizzare i Poi, i primi per assumere sin da piccolissimi maggiore agilità, coordinazione e flessibilità, le seconde per tenere allenati i loro polsi per la tessitura e la loro grazia, coordinazione ed agilità per le danze tradizionali.


Original dimension: 410×282 [JPG]

I canti dei Poi, che fanno parte dei canti chiamati Waiata o Moteatea, canti armonici e poetici in cui erano fondamentali le parole, le storie in essi raccontate, che fossero fantastiche o reali, e le melodie, originariamente non accompagnati da figure, movenze ed espressioni e completamente diversi dalle Hakas, accompagnano oggi gli spettacoli delle Wahine, le donne Maori che si esibiscono nelle loro danze tradizionali con Poi lunghi o corti, molto più leggeri di quelli usati per le arti marziali o in passato dai guerrieri.

Nei secoli la struttura del Poi Toa è variata considerevolmente, non solo nel peso dei Kii e nella lunghezza delle corde di lino, ma anche nel design e nelle decorazioni (esistono Poi di tutti i tipi, con corde lunghe o corte, con più di una pallina o con code colorate, per esempio). I Poi che oggi i Maori utilizzano nelle loro danze tradizionali sono costituiti solitamente di una sola pallina e di una sola corda. In Nuova Zelanda oltre che nei giochi e nelle danze tradizionali i Poi Toa vengono usati anche nel Kapa Haka, un particolare tipo di arte marziale, per la quale i Poi sono dotati di una pallina appesantita con una pietra e di corde lunghe fino a 5 metri.
I Poi tradizionali non sono mai stati illuminati o infuocati, ma oggi vengono prodotti dei Poi infuocati e illuminati che producono effetti fantastici.

A volte i Poi Toa vengono probabilmente chiamati Bolas perchè confusi con un altro attrezzo di origine Sudamericana, le Boleadoras, delle corde bi e tripartite che terminano con due o tre palline di pietra o metallo, usate a volte dai gauchos al posto dei lazi per la cattura di buoi, cavalli o struzzi.
  
Ed ecco qualche video…
Il primo non si vede molto bene, ma ho trovato soprattutto la musica molto suggestiva…

Il secondo è da scaricare da qui:
http://www.maori….;parent=86

Ecco uno dei testi dei canti che ritroviamo tra quelli delle Waiata, usate anche nelle esibizioni con i Poi Toa… mi ha colpita particolarmente per il significato.

Tutira Mai Nga Iwi
Waiata A Ringa

Tutira mai nga iwi
Tatou tatou e
Tutira mai nga iwi
Tatou tatou e
Whaia te maramatanga
Me te aroha e nga iwi
Kia ka tapatahi
Kia kotahi ra
Tatou tatou e

Gente, alzatevi in piedi e schieratevi!
Tutti noi, tutti insieme
Gente, alzatevi in piedi e schieratevi!
Tutti noi, tutti insieme
Ricercate la conoscenza
ed amate la conoscenza degli altri!
Questo unisce tutte le persone
Come fossero un sol uomo
Le fa pensare come un sol uomo
Le fa agire come un sol uomo
Tutti noi, tutti insieme

Curiosità: molto interessante è sapere che questo testo venne scritto tra il 1920 ed il 1930 a sostegno di un movimento chiamato MRA, o Moral Re-Armament, un movimento mirato non ad un ri-armamento di tipo militare bensì MORALE, al risollevamento ed al ritrovamento delle origini tradizionali, spirituali ed ancestrali dei nativi neozelandesi, ad una lotta dialettale e pacifica nei confronti dei colonizzatori…

Rere Taku Poi

E rere taku poi
Mauria atu ra
Nga riri o te motu
E papaki mai nei
Ko toku aroha
Me kawe ki te tau
Kia atu kia hoki mai
Kia atu kia hoki mai

Volano i miei Poi
Trasportati
verso un’isola ostile
il ritmare del mio cuore
giungerà al mio caro
Con il messaggio di tornare
Con il messaggio di tornare

 

 
Raccolsi delle informazioni su Edward S. Curtis dopo aver visto la mostra allestita al castello d’Albertis, di Genova, lo scorso anno.
Curtis dedicò tutta la propria vita alla raccolta di fotografie di Nativi Americani raccogliendo nel suo bagaglio vittorie, sconfitte, soddisfazioni e difficoltà. E’ grazie anche alle fotografie di Curtis che sono pervenute a noi moltissime informazioni sui popoli Nativi del Nord America che altrimenti sarebbero andate irrimediabilmente perdute.


279×400 [JPG]

BIOGRAFIA

Edward Sheriff Curtis nacque nel 1868 nella regione rurale del Wisconsin.
Durante l’infanzia ebbe senz’altro modo di vivere a contatto con gli indiani, ma non ci sono documenti che attestino l’effettiva influenza dei Nativi su di lui sin da bambino.
Sviluppò ben presto l’interesse per il lavoro sul campo e la fotografia: accompagnò suo padre Johnson Curtis in diversi viaggi, e costruì la sua prima macchina fotografica all’età di 12 anni. La prima esperienza professionale la ebbe a St.Paul nel 1885.
Quando suo padre, già cagionevole di salute, morì, fu il giovane Curtis ad occuparsi dell’intera famiglia, assumendone le responsabilità.

Dapprima soltanto apprendista fotografo, divenne presto fotografo professionale di buona fama. Aprì a Seattle un piccolo studio fotografico, “Edward S. Curtis, Photographer and Photoengraver”, e nel 1892 sposò Clara Phillips.
Gli ottimi proventi dello studio fotografico, oltre a renderlo il miglior fotografo di Seattle, gli conferirono una certa stabilità economica che consentì a Curtis di passare molto più tempo fuori città per dedicarsi alla sua grande passione, quella per l’esplorazione. Amava infatti fare escursioni ed arrampicate, e fra i suoi soggetti preferiti, vi erano i paesaggi: i grandi spazi aperti, le colline, e le foreste.

Durante un’esplorazione, incontrò un gruppo di escursionisti dispersi di cui facevano parte Hart Merriam, fisico e naturalista, e George Bird Grinnell, editore di un Magazine e scrittore professionista, particolarmente interessato agli Indiani della Pianure. L’incontro, per quanto casuale, si rivelò di grande importanza, poiché furono proprio Grinnell e Merriam ad assicurare a Curtis il ruolo di fotografo ufficiale nella Spedizione Harriman, che si sarebbe tenuta in Alaska nel 1899.

Nell’estate del 1900, Curtis e Grinnell viaggiarono fra gli Indiani delle Pianure. Ebbero modo di incontrare Blackfeet ed Algochini, ed assistettero fra l’altro a diverse Sun Dance.
Quest’esperienza divenne la più significativa della sua carriera: l’interesse di Curtis per gli Indiani del Nord America crebbe ulteriormente.
Si rese conto di come usi e costumi dei popoli Nativi erano destinati a scomparire sotto l’influenza dei costumi occidentali. Le fotografie, con cui avrebbe documento cerimonie, riti, volti, attimi di vita e luoghi, avrebbero trasmesso un messaggio vendicativo, di ammonimento per il popolo civilizzatore, che a poco a poco stava annientando un’intera Cultura, “una razza che sta scomparendo”.

Nacque così il “North American Indian Project”.
Fu proprio il viaggio del 1900 ad ispirare il sogno che lo avrebbe, dall’anno successivo, impegnato per tutta la vita.
Allora non poteva sapere che per portare a termine il Progetto avrebbe affrontato svantaggi e difficoltà dal punto di vista economico e personale: la moglie l’avrebbe lasciato, avrebbe perso la famiglia e il benessere economico. Persino le sue condizioni di salute fisica e mentale ne avrebbero risentito.
Ciò nonostante non rinunciò mai al proprio sogno. Come lui lo definì sin dall’inizio: “un sogno così grande che non riesco a vederlo tutto”.

Nel 1904 spostò il proprio campo d’indagine verso le tribù ad ovest del Mississippi che ancora conservavano usi e costumi tradizionali. Decise di lasciare definitivamente lo studio di Seattle, affidandone la gestione ad Adolph Murh e nello stesso anno comunicò l’idea del progetto a Frederick Webb Hodge, dello Smithsonian’s Bureau of American Ethnology. Questi gli avrebbe dato pieno consenso, e sarebbe rimasto al suo fianco in tutte le spedizioni diventando Editore dell’intera impresa.

Le fotografie sui Nativi divennero presto molto famose.
Curtis vinse il concorso fotografico indetto da un Magazine, e venne chiamato a fotografare il Presidente Theodore Roosvelt e famiglia.
Fu quest’occasione a dargli l’opportunità di esporre il Progetto e mostrare le fotografie che ritraevano i Nativi Americani, all’allora presidente degli Stati Uniti: egli ne rimase felicemente impressionato. Lo appoggiò sin dall’inizio, e continuò ad incoraggiarlo per l’intera durata della sua carriera.

Nel 1906, Curtis strinse un accordo con J.P. Morgan, famoso imprenditore del periodo, che acconsentì al finanziamento delle spedizioni. (ho visto una sua fotografia, se avete presente Mary Poppins, la scena nella banca.. ecco, mi ricorda i burberi e terrificanti finanzieri )
Morgan propose i finanziamenti in due soluzioni: avrebbe consegnato immediatamente al fotografo l’intera somma di 75.000 dollari, oppure li avrebbe suddivisi in 5 tranches annuali da 15.000 dollari.
Insieme decisero che il Progetto avrebbe dato vita ad una Collana a tiratura limitata (500 copie), che avrebbe contato alla fine un totale di 20 volumi, ciascuno con portfolio, arricchiti da testi etnografici illustrati.

Il 30 Marzo 1906, ebbe ufficialmente inizio la Missione.
Sempre al suo fianco rimasero l’editore Hodges, e un fedele assistente: William Myers.

Da subito Curtis si rese conto che la conclusione del progetto avrebbe richiesto molto più tempo rispetto ai soli 5 anni preventivati.
Il progetto andò inoltre in crisi alla morte di Morgan, sopraggiunta nel 1913. Sembrava a quel punto difficile trovare nuovi imprenditori disposti ad elargire finanziamenti.
Fu così che molti dei proventi dello studio di Seattle, vennero utilizzati per il finanziamento delle spedizioni e la stampa dei negativi: in questo modo, ben pochi soldi rimasero a sostentamento della famiglia di Curtis.
Nonostante, inizialmente, la moglie Clara Phillips accompagnasse il consorte in molte esplorazioni, dopo la nascita dei primi tre figli, Harold, Beth e Florence, le prolungate assenze del marito da Seattle la portarono a chiedere il divorzio.


Original dimension: 452×465 [JPG]

Curtis si trasferì a Los Angeles con la figlia maggiore Beth, con cui aprì un nuovo studio fotografico.
Quando Beth divenne autonoma nello svolgere la professione, Curtis cominciò a lavorare ad Hollywood per molti importanti film (Tarzan, I Dieci Comandamenti, Il Re dei Re..), e riprese a lavorare sul campo per il suo grande Progetto.

Nel 1922, Curtis riuscì a pubblicare il 12° volume della collana, con un distacco di 6 anni dall’uscita del precedente. Nello stesso anno, Jack Morgan, figlio di J.P. Morgan, acconsentì a finanziare il costo delle rimanenti pubblicazioni.
Nel 1926 William Myers lasciò il proprio posto di assistente a Steward Estwood, e nell’anno successivo, con il viaggio in Alaska, venne collezionato il materiale che avrebbe permesso, nel 1930, la pubblicazione del 19° e 20° volume.

A distanza di 24 anni dall’inizio della missione, con un costo totale di quasi 35 milioni di dollari attuali, con sole 300 copie effettivamente realizzate (di cui 86 rimaste invendute) sulle 500 inizialmente previste, il North American Indian Project, venne finalmente portato a termine.

Durante l’intera carriera Curtis sviluppò circa 50.000 negativi, effettuò 10.000 registrazioni della lingua e della musica dei Nativi Americani e girò il primo e più completo documentario su queste popolazioni.
La collana, intitolata The North American Indian, venne nel 1911 definita dal New York Yerald come l’impresa più grande mai realizzata dopo l’edizione della Bibbia. Conta 20 volumi, ciascuno con relativo portfolio, interamente realizzati a mano e rilegati in pelle. L’intera collana conta circa 2200 immagini con dettagliate descrizioni etnografiche. Alcune di queste raccolte complete si possono trovare tuttora negli Stati Uniti e in Europa: ma, mentre negli anni sessanta il valore attribuitogli era di circa mille dollari, oggi, visto il rinnovato interesse, la collana vale oltre un milione di dollari.

Nella sua impresa, o come lui amava definirla, MISSIONE, Curtis ebbe l’appoggio (e di conseguenza gli aiuti finanziari) di diversi economisti e personaggi eminenti dell’epoca, fra cui i Reali di Inghilterra e Belgio, Andrew Carnegie (importante imprenditore del periodo. Fondando la Carnegie Steel Company, a Pittsbourgh, divenne uno degli uomini più ricchi del mondo), e lo stesso Presidente Theodore Roosvelt, che nel Dicembre 1905, con la lettera che riporto (e che ho impiegato un sacco per rintracciare ), si congratulò con Curtis per il lavoro fino ad allora svolto..

THE WHITE HOUSE
WASHINGTON

16 Dicembre 1905

Mio caro Signor Curtis,

Ritengo che l’opera da Lei svolta possa considerarsi tra le più preziose che qualsiasi Americano possa mai realizzare. Le Sue fotografie, sia per il loro eccezionale merito artistico che per il loro valore, possono essere considerate veri e propri documenti storici. Non so di nessuno che le abbia viste in questo senso. Ci sta dando testimonianza della vita degli Indiani del nostro paese, cosa che non sarà più possibile tra un decennio, con grande sfortuna di tutti, sia dal punto di vista etnologico che storico. Ha iniziato la sua opera nel momento giusto, poiché questi popoli stanno progressivamente e rapidamente perdendo i loro tratti distintivi e costumi che avevano sviluppato nei secoli.

Sta rendendo un servizio che per importanza sarebbe come se Lei fosse in grado di riprodurre nei minimi dettagli le vite di coloro che vissero in Europa all’epoca della pietra. La pubblicazione dei volumi e dei portfolio proposti, che interessano ogni fase della vita di tutte le tribù che vivono ancora in condizioni primitive, rappresenterebbe un importante ed inestimabile monumento alla cultura e alla ricerca americana.

AugurandoLe di aver successo nella Sua impresa, Le invio i miei più cordiali saluti.

Theodore Roosevelt

MR. E.S. CURTIS
The Cosmos Club,
Washington, D.C.

Il lavoro di Curtis può essere distinto in quattro diverse zone di interesse: Sudovest, Nordovest, California e Grandi Pianure. Per ciascuna di esse Curtis raccolse stampe che documentavano la spiritualità, i volti, attimi di vita e modi di vivere dei diversi popoli.

La Costa del NORD OVEST, L’altipiano e l’Alaska

Già negli ultimi anni dell’800, Curtis cominciò a raccogliere alcune immagini che sarebbero poi entrate a far parte della collana “The North American Indian”.
I primi popoli ad essere documentati, furono gli indiani della regione a Nord Ovest, sulla costa pacifica, popoli che Curtis vide fra gli altri come più genuini, perchè meno contaminati, negli usi, nei costumi e nelle cerimonie, dall’influenza culturale dei popoli Europei.
Grazie alle grandi risorse naturali, le popolazioni del Nord Ovest potevano dedicare meno tempo alla caccia ed alla raccolta per il sostentamento, per incentrarsi sulla produzione di oggetti molto complessi ed elaborati come maschere e totem.
La regione dell’Altipiano e delle foreste, area che si estende fra Stati Uniti e Canada, è ricca di corsi d’acqua (uno degli elementi preferiti da Curtis) e di valli d’alta montagna circondate da foreste maestose.
Curtis ebbe modo di vivere a contatto con gli Eschimesi della regione artica e subartica dell’Alaska.
Gli Eschimesi praticavano la pesca, ma il fondamentale mezzo di sussistenza era la caccia su kayak e canoe di foche, balene, trichechi, ottima fonte di carni, grassi, ossa ed organi interni.
I mammiferi marini una volta cacciati venivano essiccati e affumicati per essere conservati e consumati successivamente durante la stagione invernale.
Essendo un’attività pericolosa, solo i cacciatori ed i canoisti più esperti erano in grado di praticarla.
In questi luoghi, cultura, valori, e religione dei Nativi Americani sembravano convivere in perfetta armonia con l’ambiente.
Probabilmente i popoli Nativi del Nord Ovest, rappresentarono il massimo esempio di quella Sacralità che Curtis aveva intenzione di trasmettere e comunicare attraverso le immagini. Le immagini che Curtis riportò da queste regioni risultarono infatti particolarmente liriche e serene.

La Missione, paradossalmente, si concluse nel 1927 proprio nell’area dove ebbe inizio. Era come se Curtis fra questa gente si “sentisse a casa”.

Le foto del Nord Ovest furono scattate principalmente fra tribu Nootka, Koskimo, Nunivak, Skokomish..
Ecco la suddivisione dei nomi di tutte le Tribù del Nord Ovest che entrarono a far parte della collezione. In particolare erano contenute nel nono, decimo, undicesimo e ventesimo volume della collana:

Costa del Nord Ovest:
Quinault, Skokomish, Quilcene, Suquamish, Squaxon, Chimakum, Quilleute, Willipa, Cowichan, Snoqualmu, and Lummi. Kwakiutl. Nootka, Haida and Makah.

Alaska:
Nunivak, King Island, Hooper Bay, Noatak, Selewik, Kobuk, Little Diomede Island, Cape Prince of Wales, and Kotzebue.


386×550 [JPG]Clayoquot Girl, del 1915

299×396 [JPG] Quilcene Boy, del 1912

400×550 [JPG] Jackson, Interpreter at Kotzebue, del 1928

IL SUD OVEST

Nel 1900, Curtis si spinse verso il Sud Ovest, incontrando tra gli altri popoli anche Hopi, Apache, e Navajo.
Gli Indiani di questa regione erano stanziati principalmente in Nuovo Messico ed Arizona, per poi dislocarsi in piccole sacche nelle regioni del Texas, della California, e del Messico settentrionale.
Vista la scarsità della vegetazione e della fauna selvatica, questi popoli divennero principalmente agricoltori. Si stanziarono in villaggi semi permanenti, e, in età più antica, anche nei Pueblos, vere e proprie città le cui strutture sono ancora oggi intatte e ritenute dagli archeologi le più antiche ed importanti testimonianze di insediamento permanente del Nord America. Furono abitati per centinaia di anni.
Anche in questo caso Curtis decise di volgere l’interesse ai popoli del sud Ovest per via del loro modo di vivere tradizionale, ancora all’inizio del 900 rimasto fortemente legato alle radici spirituali e culturali. Curtis rimase profondamente affascinato dai riti sacri di questi popoli. Questi ultmi permisero al fotografo di procedere con le riprese delle cerimonie, e Curtis ebbe anche la fortuna di partecipare ad alcune di esse: un privilegio permesso solo a pochissimi bianchi.
Nel 1907 ebbe la fortuna di incontrare ed immortalare Geronimo, il grande capo Apache, ed a questa raccolta appartiene Canon de Chelly, una delle più belle e significative fotografie di Curtis.
Fra il 1900 ed il 1925 tornò diverse volte fra questi popoli, molto più spesso di quanto accadde per le altre regioni.

Le foto del Sud Ovest sono contenute nel primo, secondo, dodicesimo, sedicesimo e diciassettesimo volume.
Ecco i popoli che incontrò Curtis:

Sud Ovest:
Apache, Navajo, Pima, Papago, Qahatika, Mohave, Yuma, Maricopa, Walapai, Havasupai, Hopi, Tiwa, Keres, Taos, Isleta, Jemez, Cochiti, Sia, Santo Domingo, Acoma, Paguate, Tewa, Zuni, San Ildefonso, San Juan, Nambe, Tesuque, e Santa Clara.


Original dimension: 600×473 [JPG] Canon de Chelly, 1904

359×550 [JPG]Qahatika Water Girl. 1907

381×550 [JPG] Geronimo – Apache , 1907

Le Grandi Pianure

Come già detto, la spedizione che Curtis intraprese alla volta delle Grandi Pianure nell’estate del 1900 insieme a Grinnel, fu probabilmente la più importante della sua vita. Assistette alla Danza del Sole, esperienza che fece maturare in lui la decisione definitiva di intraprendere il North American Indian Project, e portare a termine il sogno che fra molte disavventure l’avrebbe impegnato per il resto della vita.
I popoli delle Pianure, al tempo di Curtis, erano stanziati in particolare in Montana, Wyoming, Nord e Sud Dakota. Territori prima attraversati da grandi mandrie di bisonti.
Fra le altre Tribù Curtis incontrò anche Apsaroke, Piegan, Lakota. Curtis cercò di racchiudere o trasformare in immagine, l’idea di orgoglio, dignità, indipendenza, forza, nobiltà, fierezza, tutte qualità ed emozioni che la gente delle pianure, donne, guerrieri, grandi capi, nessuno escluso, erano in grado di trasmettere.
Le foto rappresentavano capi indiani, guerrieri, ornamenti, tende, cavalli, i paesaggi delle Grandi Pianure, "la vastità della terra e del cielo", ma anche metodi di caccia, di guerra, rituali e cerimonie religiose.
Curtis potè riprendere alcuni grandi capi, tra cui Capo Giuseppe, e nel 1907, accompagnato da tre scout Crow che avevano lavorato per Custer, ebbe modo di visitare il Little Big Horn ed i luoghi che avevano segnato la fine del generale, il 25 giugno di trentun’anni prima. Grazie alla ricostruzione degli avvenimenti da parte dei Crow ed alcuni Cheyenne che combatterono dalla parte dei Sioux, Curtis riuscì a rendersi conto dell’inettitudine di Custer, che spedì verso un sicuro massacro le sue truppe.

Le foto delle Grandi Pianure, rappresentano quelle più note fra quelle lasciateci in eredità da Curtis.
Da molti queste immagini furono e sono tuttora assunte come simbolo dell’identità, del cuore e dello spirito degli Indiani d’America, ed il foto-etnografo, nelle esplorazioni successive, non sarebbe più riuscito a trovare un esempio più profondo di quello che per lui era il concetto del North American Indian.

Le foto raccolte in quest’area si trovano dal terzo fino all’ottavo volume, e poi ancora nel diciottesimo e diciannovesimo.

Le Grandi Pianure:

Teton, Oglala and Brule Sioux, Yanktonai, Assiniboin, Apsaroke (Crow), Hidatsa, Mandan, Arikara, Atsina, Piegan, Cheyenne, Arapaho, Yakima, Klickitat, Kutenai, Flathead, Kalispel, Spokan, Nespilim, Kittitas, Nez Perce, Walla Walla, Umatilla, Cayuse, Wishham, Chinook, Chepewyan, Cree, Sarsi, Wichita, Southern Cheyenne, Oto, e Comanche.

Anche io sarò di parte … ma queste a mio avviso trasmettono senza dubbio emozioni più forti  (ndF)


Original dimension: 550×457 [JPG] The Chief and His Staff – Apsaroke, 1905

394×550 [JPG]Flathead Profile , 1910

360×500 [JPG] Chief Joseph, 1905

Il Grande Bacino e la California

Nel 1922 Curtis, accompagnato dalla figlia Florence, si diresse verso le regioni della Nord California e del Sud Oregon (dove rimase poi per i due anni seguenti) in un avvincente ed avventuroso viaggio alla scoperta delle piccole tribù che le popolavano.
I popoli del Gran Bacino e della California erano dediti alla produzione di oggetti in argilla e vivevano di caccia, pesca e raccolta. La cacciagione era costituita da antilopi, cervi, orsi e piccoli mammiferi ma anche insetti, rettili, mentre la pesca era praticata solo sulle zone costiere.
La California era popolata da molte piccole tribù, che in estate vista l’abbondanza di risorse si riunivano a comporre famiglie molto più ampie. I conflitti erano molto rari ed i dialetti e linguaggi erano più di 200 e molto diversi fra loro. Anche presso questi popoli esistevano molte cerimonie, in cui si faceva uso di droghe a volte, ma all’arrivo di Curtis l’aspetto spirituale appariva comunque già molto sbiadito.
Una parte del finanziamento per portare a termine questo viaggio, Curtis riuscì a recuperarlo ideando un dispositivo per l’estrazione dell’oro rimasto all’interno delle miniere abbandonate del Colorado.

Le foto appaiono nel tredicesimo, quattordicesimo e quindicesimo volume, e furono raccolte tutte tra il 1924 ed il 1926.

California e Grande Bacino:

Hupa, Yurok, Karok, Wiyot, Tolowa, Tutuni, Shasta, Achomawi, Klamath, Kato, Wailaki, Yuki, Pomo, Wintun, Maidu, Miwok, Wappo, Yokuts, Shoshone, Palm Canon, Mission Cupeno, Serrano, Chemehuevi, Cahuilla, Diegueno, Mono, Paviotso, e Washo.


Original dimension: 406×550 [JPG]Shatila – Pomo, 1924

Original dimension: 402×550 [JPG] A Serrano Woman of Tejon, 1924

Original dimension: 409×550 [JPG] Aged Pomo Woman, 1924

CITAZIONI

"Secondo l’uso degli indiani il mio nome sarebbe quello di "Uomo che non ebbe mai tempo per giocare" . Curtis

"Guarda attentamente. Fra non molto non sarà più possibile vedere questo genere di cose. Appartengono al passato". George Bird Grinnel a Curtis mentre osservano la cerimonia della Danza del Sole.

"E’ un sogno così grande che non riesco a vederlo tutto!" . Curtis.

"E’ diventato come un indiano. Ha vissuto, ha parlato come un indiano; è stato una sorta di "grande fratello bianco". Ha passato i migliori anni della sua vita – al pari dei rinnegati di un tempo – fra gli indiani. Ha scoperto vecchie abitudini tribali e resuscitato i costumi fantastici di un tempo ormai passato" . I giornali dell’epoca.

_______________________________________________________________

E così finiamo il viaggio attraverso la grande Missione di Curtis.
Mi sono chiesta se il tornaconto che avesse Curtis nell’intraprendere questa impresa fosse esclusivamente o prevalentemente monetario ed economico.
Curtis invece si ritrovò ad affrontare numerose difficoltà per portare a termine il progetto, andò in bancarotta e la sua passione per l’arte fotografica e questo progetto lo portarono anche al divorzio e numerose disavventure e difficoltà… insomma gli cambiò totalmente e da più punti di vista la vita, spesso più nel male che nel bene.
Inoltre con il suo lavoro potè ampliare la conoscenza e l’ammirazione per questo popolo da parte degli americani che a quel tempo li vedevano con ancora maggior razzismo, intolleranza, disinteresse, sufficienza ed indolenza. Ha permesso a noi poveri fessi di guardare il volto e lo sguardo di quelle persone che tanto ammiriamo, ci ha lasciato una grandissima testimonianza di cose che potevano andare completamente perse. Alcune sono talmente belle da essere commoventi *_*
Se osservate le foto che potete ritrovare anche in questo sito (http://curtis.lib…stern.edu/), che consiglio perchè ricco di informazioni dal primo all’ultimo volume e davvero ben fatto… secondo me vi stupirete nel vedere qui e lì uomini, donne e bambini, che somigliano moltissimo a vostri amici e conoscenti…
Ed infatti una riflessione che mi vien da fare, è come fossero simili a noi e quanto invece sia assurdo il fatto che per tempo siano stati considerati così diversi… come dice il mio caro "Lore":

Siamo noi in altre vite, in altre latitudini
Noi, in altre nostalgie in altre solitudini
Noi.. siamo sempre inesorabilmente noi..
Uniti dall’abbraccio di una stella
Divisi dentro al muro di una cella
Il sangue è sempre rosso, indipendentemente dalle vene…