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Archive for febbraio 2011

 

Negli ultimi anni si è visto un maggiore impegno da parte delle case di produzione cinematografiche, soprattutto Statunitensi,  nel documentare attraverso film diciamo di “stampo critico”, fatti avvenuti in paesi in via di Sviluppo, nei quali si riscontrano responsabilità immediate anche da parte dei paesi del vecchio continente. Uno di questi è Blood Diamond, ambientato in Sierra Leone, e critica cinematografica a parte il film può essere preso a pretesto per indagare più da vicino le vicende e le realtà che caratterizzano questo paese, che praticamente per tutti gli anni ’90 è stato dilaniato da una folle guerra civile collegata al commercio illegale di diamanti.



La zona dei Monti del Leone prima della colonizzazione portoghese, avvenuta nel 1462, era inclusa nell’Impero del Mali. Era abitata da quattro gruppi etnici, gl Tmene ed i Limba, i Mandingo ed i Malinkè. Furono proprio i portoghesi a dare a questa terra il nome di Sierra Loya. Prima di loro genovesi e normanni vi stabilirono basi commerciali dandole il nome di costa dei grani.

 Nel 1700 il potere passò in mano agli Inglesi, le etnie vennero prima ridotte in schiavitù e commerciate verso i territori del nord America, poi usate dagli stessi ad emblema della lotta alla tratta schiavista intrapresa dalla Corona Inglese nel 1800.

 Gli schiavi venduti in America dopo aver combattuto per l’Inghilterra nella guerra d’Indipendenza acquistarono la libertà ma patirono, e spesso perirono, fra fame povertà e discriminazione.  Gli schiavi rimasti in Sierra Leone pian piano riuscirono invece a riacquistare il loro status di cittadini liberi, e nel 1787 fondarono la nuova capitale: Freetown. Nel 1896 il paese ebbe un’evoluzione politico-sociale che coinvolse solo la zona costiera, lasciata dagli inglesi alla loro amministrazione autonoma.

Nel 1961 la Sierra Leone ottenne la completa indipendenza.

Ma da quel momento in avanti il paese è rimasto in costante stato di guerra civile, con continui e successivi colpi di stato. Le violenze ed i conflitti tribali aumentarono, così come la povertà e l’analfabetismo, che riguardano tutt’ora il 70 % della popolazione.

 

Nel 1985 il governo toccò il fondo. Molti partiti cominciano ad insorgere contro il governo, il CDF, l’AFCR, e il più importante e violento, il RUF (Fronte Unito Rivoluzionario) che crebbe fino a diventare un vero e proprio esercito di ribelli prese ad attaccare gli uomini alla guida della Sierra Leone accusandoli per il loro malgoverno. Ma in realtà i loro attacchi non furono mirati al solo governo ma a tutto il popolo: cominciarono a mettere a soqquadro l’intero paese e la loro stessa gente, bruciarono villaggi di pacifici e innocui agricolotori o pescatori e ne fecero loro schiavi. Fra le loro file vennero impiegate anche le small boy units, i bambini soldato, strappati alle loro vite ed alle loro famiglie e dai 7-8 anni costretti a combattere, ad uccidere, a mozzare arti contro la loro volontà: imbottiti di droghe e fomentati dagli incitamenti dei loro capi vivono la guerra e l’uccisione degli uomini come un grande gioco, assuefacendosi pian piano alla vista dei morti e del sangue fino a non farci più caso.

 

Qui entrano in gioco i diamanti: per combattere si ha bisogno di armi. Ma i Leonesi non hanno possibilità di costruirle da sé, hanno necessità di commerciare con stati esteri per poterle comprare ed unica e d’altra parte enorme risorsa di questa terra sono proprio le pietre preziose. Aumentano gli attentati e gli scontri ed il governo vieta il commercio di diamanti verso altri paesi, ma ovviamente il contrabbando lo rende possibile. I “conflict diamonds”, i diamanti di guerra, arrivano di nascosto in Liberia e da lì sono venduti come diamanti non sporchi di sangue alle grandi major che si occupano del commercio di pietre preziose. Con i soldi degli occidentali gli africani riescono a reperire le armi.

 Per fermare i massacri nel 1999 intervennero le Nazioni Unite: un contingente di 18.000 uomini riuniti nell’UNAMSIL ha assistito il paese nel cessate il fuoco, nel far cessare gli scontri e durante il disarmo, ed ha coadiuvato alla buona riuscita degli accordi di pace fra il governo ed i partiti contrastanti, che prevedevano la formazione di un governo con quote fra cui oggi sono presenti anche esponenti del RUF.

 

Si parla sempre di ridurre o annullare debiti, ma non si pensa mai a quelli insanabili, incompensabili, che abbiamo noi nei confronti di tutti quei popoli che nel corso della storia abbiamo soggiogato, discriminato, sterminato, sottomesso. Così per il colonialismo in Africa, così per i popoli polinesiani, per le popolazioni andine, mesoamericane e Native del Nord America..

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Nel viaggio…

“Quindi, pieno d’ardore, mi gettai solo nel tempestoso oceano del mondo, di cui ignoravo i porti e gli scogli. Prima visitai i popoli che non ci sono più; andai a sedermi sulle rovine di Roma e della Grecia: paesi di robusta e ingegnosa memoria, dove i palazzi giacciono sepolti nella polvere, e i mausolei dei re nascosti sotto i rovi. Forza della natura, e debolezza umana: spesso un filo d’erba fora il marmo più duro di quelle tombe, che tutti quei morti così potenti non potranno mai sollevare! A volte appariva un’alta colonna, sola nel deserto, come un grande pensiero che, di quando in quando, si erge in un’anima che il tempo e l’infelicità hanno devastato. Meditai su quei monumenti in tutte le circostanze e in tutte le ore della giornata. Lo stesso sole che aveva visto gettare le fondamenta di quelle città, tramontava maestosamente davanti ai miei occhi sulle loro rovine; e la luna che si alzava nella purezza del cielo, tra due urne funerarie spezzate a metà, mi mostrava le pallide tombe. Spesso ai raggi di quell’astro che alimenta le fantasticherie, ho creduto di vedere il Genio dei ricordi seduto accanto a me in raccoglimento. Ma mi stancai di frugare nelle tombe, dove troppo spesso non smuovevo che una polvere criminale. Volli vedere se le razze viventi mi avrebbero offerto più virtù o meno sventure di quelle scomparse. Un giorno, mentre passeggiavo in una grande città, transitando dietro un palazzo, in uncortile appartato e deserto, scorsi una statua che indicava con il dito il luogo di un famoso sacrificio. Fui colpito dal silenzio di quei luoghi; solo il vento gemeva attorno a quel tragico marmo. Alcuni operai stavano accovacciati con indifferenza ai piedi della statua, dove tagliavano pietre fischiettando. Domandai loro cosa rappresentasse quel monumento: gli uni me lo dissero a stento, gli altri ignoravano la catastrofe a cui alludeva. Nulla mi ha più dato la giusta misura dei fatti della vita, e del poco che noi siamo. Cosa sono diventati quei personaggi che fecero tanto rumore? Il tempo ha fatto un passo, e la faccia della terra si è rinnovata. Nei miei viaggi cercai soprattutto gli artisti e quegli uomini divini che sulla lira cantano gli dèi e la felicità dei popoli che onorano le leggi, la religione e le tombe. Quei cantori appartengono a una razza divina, essi possiedono il solo talento incontestabile che il cielo abbia donato alla terra. La loro vita è insieme semplice e sublime; essi celebrano gli dèi con l’oro della bocca, ma sono i più semplici degli uomini; parlano come gli immortali o i bambini; spiegano le leggi dell’universo, ma non possono comprendere le più innocenti faccende della vita; hanno idee meravigliose sulla morte, ma muoiono senza accorgersene, come i neonati. Sui monti della Caledonia, l’ultimo Bardo che sia stato udito in quei deserti mi cantò i poemi con cui un tempo un eroe consolava la sua vecchiaia. Eravamo seduti su quattro pietre corrose dal muschio; ai nostri piedi scorreva un torrente; poco distante un capriolo passava tra le rovine di una torre, e il vento del mare fischiava sulla brughiera di Cona. Ora, la religione cristiana, anche lei figlia delle alte montagne, ha messo croci sui monumenti degli eroi di Morven, e toccato l’arpa di Davide, sulle rive dello stesso torrente dove Ossian fece gemere la sua. Pacifica, quanto le divinità di Selma erano guerriere, essa custodisce greggi dove Fingal dava battaglia, e ha diffuso angeli di pace là dove le nuvole erano abitate da fantasmi omicidi. L’Italia antica e ridente mi offrì la folla dei suoi capolavori. Con quale orrore santo e poetico non vagabondai in quei vasti edifici che le arti hanno consacrato alla religione! Che labirinto di colonne! Che succedersi d’archi e di volte! Che bei suoni si odono attorno alle cattedrali, simili al rumore dei flutti nell’Oceano, al mormorio dei venti nelle foreste, o alla voce di Dio nel suo tempio! L’architetto costruisce, per così dire, le idee del poeta, per farle toccare dai sensi. Ma cosa avevo imparato fino ad allora con tanta fatica? Nulla di certo tra gli antichi, nulla di bello tra i moderni. Passato e presente sono statue incomplete: l’una è stata ritirata tutta mutilata dalla rovina dei tempi; l’altra non ha ancora ricevuto la sua perfezione dall’avvenire. Un giorno ero salito in cima all’Etna, un vulcano che brucia in mezzo a un’isola. Vidi il sole levarsi sotto di me nell’immensità dell’orizzonte, la Sicilia stretta in un punto ai miei piedi, e il mare disteso nella lontananza degli spazi. Da quella vista verticale sul paesaggio, i fiumi non mi sembravano che segni geografici tracciati su una carta; ma, mentre da una parte il mio occhio scorgeva quelle cose, dall’altra s’immergeva nel cratere dell’Etna, le cui viscere infuocate mi si rivelavano tra neri sbuffi di vapore. Un giovane pieno di passioni, seduto sull’orlo di un vulcano, che piange sui mortali di cui scorge a fatica le dimore ai suoi piedi, certamente per voi vecchi non è che un oggetto degno di pietà; ma, qualsiasi cosa possiate pensare di René, questo quadro vi offre l’immagine del suo carattere e della sua esistenza: così, per tutta la vita, ho avuto davanti agli occhi l’impercettibile immensità della creazione, e un abisso spalancato al mio fianco». «Selvaggi beati! Oh! E io che non posso godere della pace che sempre vi accompagna! Mentre percorrevo con così poco frutto tanti paesi, voi, tranquillamente seduti sotto le vostre querce, lasciavate scorrere i giorni senza contarli. Il vostro pensiero coincideva con i vostri bisogni e giungevate, più di me, alla saggezza, come il bambino, che vi arriva giocando e dormendo. Se qualche volta la vostra anima veniva raggiunta dalla malinconia generata da un eccesso di felicità, in poco tempo uscivate da quella tristezza passeggera e il vostro sguardo, levato al cielo, cercava con dolcezza l’indefinibile ignoto che s’impietosisce del povero selvaggio». Allora il vecchio selvaggio disse: «Mio giovane amico, i moti di un cuore come il tuo non possono essere equilibrati; cerca solo di moderare un po’ quel carattere che ti ha già fatto tanto male. Se tu soffri più degli altri per le cose della vita, non devi stupirtene; un’anima grande deve contenere più dolore di una piccola».

F.R. de Chateaubriand

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